Vasile Ernu

În viaţă există lucruri mult mai îngrozitoare decît moartea BR Anna Ahmatova

În viaţă există lucruri mult mai îngrozitoare decît moartea
Anna Ahmatova
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Eresia e Ostalgia

Massimiliano Di Pasquale / massimilianodipasquale

In una lunga intervista rilasciatami lo scorso anno, oggi per la prima volta in versione integrale su Eastern Europe Post, Vasile Ernu, scrittore e filosofo romeno parlando del suo ultimo romanzo, Gli ultimi eretici dell’Impero, affrontava temi come lo scontro tra Russia e Occidente, la dissidenza in URSS e in Romania, le rivoluzioni colorate di Georgia, Ucraina e Moldova. Le sue considerazioni, seppur provocatorie e viziate da una certa avversione ideologica nei confronti del mondo occidentale, sono interessanti perché esprimono un punto di vista che non è mai propagandistico, piuttosto, citando il titolo del suo libro, eretico. Le considero altresì utili per comprendere la pigrizia culturale di certi intellettuali che, orfani del socialismo, non riescono a elaborare un pensiero forte e preferiscono rifugiarsi nella nostalgia e in critiche talvolta sterili verso il mondo occidentale.

Gli ultimi eretici dell’Impero (cover)

Dal romanzo ostalgico venato di ironia, Nato in Urss, a un romanzo epistolare dal taglio filosofico e dalla forte connotazione politica come Gli ultimi eretici dell’Impero. Qual è stata la molla che l’ha spinta a scrivere questo corposo romanzo che mescola più generi? Cosa si proponeva di evidenziare, denunciare, stigmatizzare?

Nel primo libro ho cercato di parlare del passato senza odio, né passione. Ho cercato di dimostrare che al di là dell’ideologia e del regime repressivo, la gente è riuscita a vivere la propria vita anche nel comunismo. Anche nel comunismo ci si amava, si ballava, si piangeva, si era contenti. La vita è la cosa più importante, trascende i regimi e le ideologie. E io ne parlo con nostalgia, tenerezza, ma anche molta ironia. Nel secondo libro mi concentro su qualcosa di un po’ diverso. Cerco di mettere in dubbio le cose, le storie con una formula più paradossale, e di portare l’attenzione sul fatto che il mondo che abbiamo lasciato potrebbe non essere il “male peggiore”, mentre quello in cui siamo entrati, a sua volta, potrebbe non essere il “paradiso in terra”; inoltre che il nostro ruolo è mettere in dubbio sia il mondo in cui siamo vissuti che quello in cui viviamo ora, per comprenderli meglio. Cerco poi di dimostrare che ogni regime, comunista o capitalista, porta con sé una serie di forme repressive, e che entrambi vogliono farci loro prigionieri e rubarci la vita, che in fondo è la cosa più preziosa che abbiamo. Sollevo, infine, una serie di temi fondamentali legati al passato, ma soprattutto al mondo attuale, basandomi su storie e semplici osservazioni.

Come mai ha deciso di adottare la forma del romanzo epistolare?

Sono un grande appassionato delle epistole dell’apostolo Paolo. Penso che nella nostra epoca il genere epistolare sia molto fecondo. È tipico delle epoche di transizione, di rottura e di eterno movimento. Forse è rimasta l’unica forma con cui siamo ancora in grado di comunicare. Non è vero, del resto, che passiamo tutto il nostro tempo su Messenger e Facebook, mandandoci messaggi, o brevi epistole, perché la realtà non ci permette più di stare insieme? Inoltre, è un genere molto fecondo per la polemica, per gli scambi di idee, i dibattiti. Il genere che mi ha permesso di rendere questo scambio di idee e di polemiche il più vivido possibile. In fondo, gli eroi del mio libro sono le idee, e il genere epistolare è l’ideale per darvi corpo.

Vasile Ernu, chi sono gli ultimi eretici dell’Impero?

Gli ultimi eretici dell’Impero sono una specie in via d’estinzione: sono individui scettici che mettono in discussione tutte le idee preconcette, vecchie e nuove, i cliché, le “verità” e le “buone cose” della nostra vita. Costoro vanno contro corrente, contro il vecchio e il nuovo establishment. La funzione dell’eretico, il suo tipo di atteggiamento e di riflessione, è simile a quella di uno spazzolino da denti. Ha una funzione igienica, con la differenza che non pulisce i denti, ma il cervello, da tutte le idee preconfezionate e i convincimenti anchilosati. È una specie di cui abbiamo gran bisogno, specie oggi, quando l’ideologia dominante e la velocità non lasciano più spazio alla riflessione.

Quale valenza attribuisce al termine eretico? In quale accezione lo usa? Le faccio questa domanda perché a mio avviso il suo libro, pur occupandosi di questioni importanti – dissidenza, mondo occidentale vs mondo sovietico, transizione dei paesi ex sovietici verso la democrazia – non giunge a proporre ottiche visuali innovative sui temi trattati.

Per me l’eretico riveste un ruolo positivo in questo libro. È un virus necessario: è colui che ci ricorda che siamo malati, che ci dà da pensare. Colui che solleva interrogativi e mette in dubbio le zone del potere, lì dove nessuno osa, né ha il coraggio di osare. È vero che i miei eretici, eroi che polemizzano l’uno con l’altro, non danno una “risposta”, non propongono una “ricetta”. Ma non è questa la loro funzione, né tantomeno quella del libro. Ritengo che, secondo la buona tradizione europea, le domande siano più importanti delle risposte. Una buona domanda, una domanda che risulti scomoda e ci dia da pensare, rappresenta già un grande traguardo. Le buone domande possono collocarci sulla traiettoria di una risposta, ci possono aiutare a trovare una soluzione. So che oggi non c’è più tempo per questo genere di preoccupazioni, poiché il tempo è denaro, tutto è denaro, ed è comodo ricercare soluzioni sempre più meccanicistiche. Ma siamo esseri umani, e gli esseri umani devono sognare. Senza sogni non c’è attualità. Dunque, se non inventeremo altre utopie, saremo condannati a una vita meschina, inumana. La lezione della grande letteratura russa è lineare, propone un tema fondamentale e suggerisce una risposta: come liberarci della meschinità, dal terrore dell’uomo minuscolo, dell’uomo piccolo. Risposta: solo il sogno, solo l’utopia possono renderci umani e salvarci dall’“uomo piccolo e meschino”. Non dobbiamo quindi avere timore di fare domande folli, perché soltanto esse potranno condurci all’utopia, e soltanto il sogno potrà salvarci.

Quanto c’è di autobiografico nel personaggio di Vasilij Andreevic?

Abbastanza, dato che utilizzo molte informazioni tratte dalla storia di persone a me care, per le quali nutro ammirazione. Molto del materiale che utilizzo, dalle persone alle idee, è in qualche modo parte di alcune vite, di persone straordinarie che mi hanno lasciato qualcosa dentro. E questo accade non solo nel caso di Vasilij Andreevic, che è un po’ un mio alter ego, ma soprattutto in quello di A.I. Tuttavia, il volume è finzione, non autobiografia.

Crede anche Lei che il dissolvimento dell’URSS sia stata la più grande catastrofe del XX secolo come ha affermato qualche anno fa il presidente russo Vladimir Putin? Le pagine del suo libro sono intrise di nostalgia sovietica…

La nostalgia, come l’amore o l’odio, fanno parte della nostra vita. Rinunciare alla nostalgia vuol dire rinunciare a uno dei sentimenti umani più potenti e importanti. Cosa sarebbe la letteratura senza nostalgia? Cosa sarebbero i libri di Proust? La nostalgia non è un luogo, ma un tempo, un paese del tempo che non possiamo più visitare, in cui non possiamo più tornare se non nel ricordo. Nessuna persona di buon senso può provare nostalgia per le ideologie (comunismo o capitalismo), ma per “i vecchi tempi”, per la sua vita edenica e irripetibile dell’infanzia e dell’adolescenza.
Se la scomparsa dell’URSS è stata una catastrofe? Di certo è stato uno dei più grandi e rilevanti eventi politici, sociali ed economici del XX secolo. Penso che qualsiasi morte porti con sé un che di tragico, e quando il tragicismo assume proporzioni tanto grandi, anche qualcosa di tremendo. Qual è stato il significato della decadenza dell’Impero romano? Per una parte della popolazione è stato una catastrofe, mentre per un’altra si è trattato di una fortuna enorme. Dal punto di vista geopolitico è accaduto lo stesso: è venuto meno un grande Impero, una costruzione unica nel suo genere, con un immenso apparato di repressione, e questo ha portato alla nascita di altre strutture politiche, altri stati ecc. Quando l’URSS è scomparsa, c’era molta euforia, molta allegria, un’aria di libertà indescrivibile. Ma gli effetti sociali ed economici si rivelarono tragici per un numero ingente di persone. Ne risentono ancora oggi molti paesi dell’est. Ma tutto ha un prezzo. Personalmente, mi faccio guidare spesso da un motto: il passato non deve essere amato, né odiato, ma soltanto capito. Per poter vivere nel mondo attuale, per poter comprendere e cambiare il mondo attuale, c’è bisogno in primis di capire il passato di cui ci facciamo carico. Odiare o amare il passato vuol dire restare prigionieri. Io, invece, amo essere libero.

Nel libro i due protagonisti Vasilij Andreevic e il Grande Istigatore affrontano anche il tema della dissidenza. In Italia la dissidenza è stata vista in maniera monolitica probabilmente perché si è parlato tanto di Solzhenitsyn e molto meno di altri esponenti. Vorrei sapere che giudizio dà Lei della dissidenza sovietica e quale ruolo le attribuisce storicamente?

Ho un’opinione meno conformista rispetto ai dissidenti. Ritengo che il dissidente sia un prodotto del collaborazionismo tra i sistemi capitalista e comunista. Il dissidente era il miglior mediatore, una sorta di dizionario o di traduttore dei rapporti tra stati comunisti e capitalisti. Era parte del sistema comunista, ma conosceva bene i linguaggi di entrambi i regimi: traduceva a chi si trovava all’interno quel che il mondo liberale pensava riguardo al mondo comunista, e raccontava al mondo occidentale quanto accadeva nello spazio comunista utilizzando un linguaggio e un gergo liberale. Finché il comunismo è esistito, la sua voce era udibile in diverse forme, ma dopo la caduta del regime è rimasta solo la griglia interpretativa dei vincitori, ovvero del mondo occidentale e del dissidente. Volenti o nolenti, è così. La tragedia è che oggi quel che sappiamo di noi è in gran parte quel che si inquadra nella griglia liberale occidentale. Le forme di interpretazione più anti-conformiste sono molto prolifiche nei mondi marginali, ma in nessun caso saranno ben accolte dal potere ufficiale. C’è un paradosso: la critica liberale e quella dei dissidenti mossa al comunismo è del tutto autentica, ma lo è anche la critica al capitalismo mossa da parte comunista. Ritengo che, oggi come oggi, leggere la griglia dei dissidenti per comprendere il comunismo ci aiuti solo in parte. Ci aiuta a comprendere solo in parte il meccanismo delle repressioni, ma crea nel suo insieme un sistema che distorce e serve gli interessi di un determinato ceto sociale. Per questo motivo gli intellettuali liberali vi si inquadrano facilmente, mentre la maggioranza delle persone quasi per nulla. Ecco perché, a mio parere, i filtri interpretativi devono essere diversificati. Molte volte, analizzando i gruppi marginali, come i banditi o i seguaci delle sette (tema che mi interessa molto), riusciamo a comprendere molto meglio quanto sia accaduto nel comunismo e troviamo interpretazioni di interesse più generale. Io nutro sempre più dubbi riguardo al monopolio interpretativo liberal-occidentale che, per quanto concerne l’interpretazione del comunismo, appartiene anche ai dissidenti. Dobbiamo tenerne conto, ma non deve diventare egemonico. Perché la storia potrebbe vendicarsi, così come ha fatto più di una volta.

Qual è stata la differenza tra il ruolo dei dissidenti in Romania e nell’ex URSS?

La differenza è notevole. L’URSS, che è una prosecuzione della Russia zarista, possiede per tradizione un forte atteggiamento critico. I russi sono degli scettici purosangue. Non dimentichiamo che la stessa parola “intellighenzia” è di origine russa. Membro dell’intellighenzia è quell’intellettuale impegnato politicamente, l’anti-potere che lotta per il bene comune, colui che viene in aiuto delle grandi masse svantaggiate. Anche il periodo zarista era caratterizzato dalla lotta degli intellettuali impegnati, l’apparato di repressione era duro e le carceri traboccavano di intellettuali per diversi motivi politici. La dissidenza sovietica ha conosciuto a sua volta fasi diverse: un conto è la dissidenza degli anni Trenta, un altro è quello degli anni Sessanta, e poi quello degli anni Ottanta. Quel che è certo è che sono sempre esistiti gruppi consistenti di dissidenti che erano scomodi per il potere. In Romania le cose stanno in maniera completamente diversa. La Romania è un paese con una tradizione critica molto debole. Qui, per tradizione, gli intellettuali si affiancano al potere, o nel peggiore dei casi assumono una posizione neutra, di tutto comodo. I dissidenti e coloro che criticano il potere costituiscono l’eccezione. In Romania costoro non sono mai riusciti a coagularsi entro strutture, entro gruppi perlomeno coerenti. In pratica, non hanno contato se non nelle zone periferiche. Penso che l’Occidente e il discorso postcomunista li abbia sopravvalutati. Purtroppo tutto questo ha avuto un effetto negativo, perché si è creata un’immagine falsa, che influenza la comprensione del passato, ma soprattutto del presente. In Romania si sta combattendo il comunismo dopo che è scomparso, mentre sugli abusi del presente si tace.

“Sto assimilando la mia nuova Patria, ma non credo che diverrà mai così intima quanto lo era la mia di un tempo”. Così scrive in un passo del libro uno dei suoi protagonisti. Questa affermazione vale anche per lei, visto che da circa 20 anni risiede in Romania?

Il passaggio dall’URSS alla Romania è stato un’esperienza molto difficile, che mi ha comportato diversi problemi e tensioni. Sono nato e cresciuto in una famiglia in cui predominavano la lingua e la cultura romene, benché quella sovietica avesse un ruolo piuttosto centrale, per via dell’influenza della cultura di strada e della scuola. Ma quando mi sono trasferito in Romania ho subito uno shock culturale nel constatare come quel che conoscevo io di questo paese e di questa cultura non fosse compatibile con l’esistenza quotidiana. Allora ho capito una cosa fondamentale: non basta conoscere la lingua e la cultura di un paese. C’è un’esperienza di vita quotidiana che a volte è più forte della lingua parlata e della cultura assimilata dai libri. Ho notato spesso che noi, romeni educati e cresciuti nell’Impero, pur utilizzando le stesse parole dei romeni di Romania, ci riferiamo spesso a cose diverse, perché dietro le parole ci sono esperienze ed emozioni diverse. Non si può fare astrazione da questa realtà. Abbiamo avuto un’altra esperienza di vita, siamo stati formati e plasmati da altre strutture sociali, da altre esperienze quotidiane. Per questo motivo, spesso riesco a capirmi meglio con gli amici della mia generazione vissuti in URSS, che con i miei coetanei in Romania. Con la Romania, la “mia nuova Patria”, intrattengo un rapporto simile a quello che si ha con una lingua appresa in età adulta: la conosci bene, ma non la senti vicina o intima come quella che ti è appartenuta da quando eri piccolo.

Le Rivoluzioni colorate vengono stigmatizzate nel libro in una missiva del Grande Istigatore che introduce il personaggio de “il cinico”, un ex specialista del dipartimento propaganda del KGB oggi al soldo degli occidentali. Partendo da questo rimando letterario vorrei sapere qual è il suo personale giudizio su queste rivoluzioni pacifiche che hanno caratterizzato i primi anni 2000 in Georgia, Ucraina e Moldova.

Osservando questi movimenti su un lasso di tempo più ampio, ci accorgiamo di alcune cose molto semplici. In primo luogo, essi non hanno fatto altro che contribuire a sostituire certi gruppi di potere, senza imprimere alcun cambiamento profondo nella società. Si è trattato di un mutamento politico superficiale, privo di consapevolezza, che ha fatto l’interesse di alcuni gruppi, e che in gran parte andava a genio agli occidentali. Nel lungo periodo, tuttavia, quelle rivoluzioni si sono rivelate fallimentari, proprio perché non generate da movimenti politici reali, ma confezionati per l’occasione. Non hanno avuto effetti profondi. In secondo luogo, hanno promosso l’ideologia e le politiche prevalenti nel discorso politico occidentale mainstream. Hanno riscosso il gradimento della politica e dell’economia occidentale egemonica, senza partire minimamente dalla situazione politica ed economica reale del paese e delle popolazioni interessate. Si è trattato, in pratica, di schemi e costrutti presi in prestito e totalmente scissi dai bisogni e dalla realtà politica locale. Non voglio dire che quelle persone “sono state vendute allo straniero” o che hanno rappresentato “interessi esteri”, ma solo che sono state protagoniste di un racconto fantastico, privo di alcun contenuto politico reale.

Pensa che la cosiddetta twitter Revolution in Moldova, paese dove lei ha vissuto all’epoca dell’URSS, abbia trasformato in senso democratico la società di quella ex repubblica sovietica?

Credo che la rivoluzione twitter in Repubblica Moldova sia stata sopravvalutata e che le si attribuisca un ruolo maggiore di quello che le spetta. Resto del parere che gli eventi che hanno cambiato radicalmente le strutture socio-politiche in questo paese risalgono alla fine degli anni Ottanta, nel periodo sovietico. Fu allora che avvennero cambiamenti davvero importanti. La rivoluzione twitter ha avuto più che altro un forte impatto mediatico e una certa influenza su una sparuta élite intellettuale e su una classe media molto esigua. Gli altri certi sociali, la grande maggioranza della popolazione, non sono stati influenzati. Tuttavia, nella realtà le cose sono molto più complicate. La Repubblica Moldova negli ultimi anni sta attraversando delle trasformazioni radicali, alcune catastrofiche, che hanno origine in ambito economico, nient’affatto politico. Fenomeni quali l’immigrazione della forza lavoro, l’abbandono dei minori che ne deriva, poi la morte dei villaggi (la Moldova è uno stato dall’economia basata prevalentemente sull’agricoltura), il degrado delle infrastrutture, la riduzione al minimo dello stato sociale, la mancanza di posti di lavoro, il degrado del sistema sanitario ed educativo etc. hanno praticamente ridotto il paese alla povertà, condannandolo al marasma sociale e all’arretratezza. Non dimentichiamo che negli anni Sessanta-Settanta la Repubblica Moldova aveva compiuto passi importanti verso l’ammodernamento. Adesso è tornata indietro. Difficile fare pronostici riguardo allo sviluppo di questo paese. Ma le notizie che abbiamo non sono buone.

(Si ringrazia Anita Natascia Bernacchia per la traduzione dal romeno)

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30 June, 2014
in: Blog, Cronici, Interviuri, Noutati, Presa   
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