Nato in URSS
«Se il mondo in cui siamo vissuti era centrato sulla repressione politica, quello di oggi si basa sulla repressione economica. Sono due facce della stessa medaglia. Entrambe ci controllano e ci riducono in sudditanza; cercano di trasformarci in schiavi e macchine che reagiscono a ordini prestabiliti. Entrambe ci lavano il cervello in maniera altrettanto perfida e ci alienano con altrettanta efficacia […]. I nostri compromessi di oggi sono identici a quelli che facevamo in passato». Vasile Ernu, artista rumeno classe 1971, nato e cresciuto sotto l’egida dell’Unione Sovietica, nell’allora Bessarabia, non ha dubbi: tornare a ricordare il passato suo e del suo popolo non è così atroce e disperante come si potrebbe pensare, è piuttosto ragione di una certa nostalgia. Nato in URSS (Hacca, euro 14, pp. 326), sua provocatoria opera prima, è il memoir di un quarantenne che scrive nella piena consapevolezza d’essere stato testimone di un regime totalitario che considera piuttosto «uno dei progetti più utopici dell’umanità»: di quel regime ha conosciuto apogeo e improvviso declino, in quel regime è stato cittadino orgoglioso.
Ernu si considera un «prodotto made in Urss», e ha nostalgia di casa: ma casa sua non più esiste. Per l’homo sovieticus non c’è più un luogo in cui tornare: il passato s’è fatto letteratura. Per questa ragione è appena meno sconcertante del previsto interiorizzare le pagine d’un testo che si propone come un romantico amarcord di qualcosa che per molti popoli è stato un incubo: è chiaro che Ernu non ha nessuna voglia di rispettare i milioni di morti caduti per mano della sua vecchia nazione, e non ha nessuna intenzione di rispettare la sofferenza di quei popoli, come il popolo ucraino, polacco, magiaro, afgano, come i popoli baltici, che hanno vissuto la perdita dell’autonomia o dell’indipendenza e l’esperienza della sovietizzazione come una parentesi terrificante. Ma Ernu non è uno storico. Ernu è un polemista. Ernu è un narratore non più giovane che ha nostalgia della sua adolescenza e della sua giovinezza, del mondo che ha conosciuto e di ciò che ha rappresentato, nel bene e nel male: degli oggetti che incontrava allora, e di cui si serviva, e dell’economia in cui era cresciuto e s’era formato, perché la trovava più onesta e giusta. «Oggi abbiamo sigarette, alcool, tanto da mangiare, ma è svanito il pathos, lo spirito sublime, lo spirito di giustizia. È diventato tutto una specie di vodka analcolica», scrive.
Un approccio lucido e onesto a questo libro pretende un lettore capace di guardare con la dovuta pietà, la dovuta intelligenza e la dovuta sensibilità a tutto ciò che è passato, è caduto, è morto: il lettore ideale di “Nato in Urss” non è un cinico, e non è un nostalgico. È un osservatore delle cose del mondo sensibile e ironico, curioso e onesto. A questo lettore piacerà leggere frammenti d’un’opera che può parlare a tutti, non soltanto agli ex comunisti, non soltanto ai socialdemocratici più sensibili a certe dinamiche e certe possibilità. Può parlare a tutti perché, ad esempio, ricorda quanto è bello e importante conquistare qualcosa passo dopo passo: è vero che il consumismo figlio del turbocapitalismo ci ha tolto uno dei piaceri più grandi, vale a dire «il piacere di possedere delle cose ottenute con fatica». È altrettanto vero, aggiungerei, che la possibilità di poter avere qualsiasi cosa a condizione di potersi indebitare è stata, da questo punto di vista, ulteriormente disastrosa, e in molti sensi. Ernu riesce, nella sua apologia del socialismo sovietico, a ricordarci quanto è importante non cadere nell’inganno della necessità dell’acquisto delle cose superflue: in un periodo di furibonda recessione economica come questo, i nostri compatrioti hanno bisogno di tornare a essere educati al culto dei sacrifici, delle fatiche, dei risparmi pur di avere il diritto di comprare qualcosa o di poter accedere a certi servizi più ludici che essenziali. Non solo: quando l’artista rumeno scrive che all’epoca «i soldi non ci interessavano, avevamo scopi di gran lunga più nobili, come l’uguaglianza, la fratellanza, la pace, la libertà, mentre l’accumulo di capitale era un intento meschino proprio della borghesia capitalista», ci ricorda quale può essere una visione del mondo più giusta e più sensata, e quali i principi su cui fondare un sistema diverso, in futuro. Peccato non siano stati quelli della sua Unione Sovietica, che tutto ha rappresentato fuorché un’oasi di pace e libertà, figuriamoci di fratellanza. Ma quei principi devono tornare a ispirare i nostri contemporanei. Diciamo, col filosofo Slavoj Žižek, che la scintilla utopica non può e non deve spegnersi, quali che siano le nostre convinzioni politiche: se i vecchi marxisti hanno pieno titolo di tornare a meditare sul loro passato, non per ripetere Lenin, ma per «ripetere i suoi tentativi mancati, le sue possibilità perdute», noi, che marxisti non siamo mai stati, abbiamo il dovere morale – e ne sentiamo la necessità sempre di più, ogni giorno che passa – di andare in cerca di nuovi paradigmi culturali, economici ed esistenziali improntati a principi nobili e più giusti. Più umani.
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