Vasile Ernu

În viaţă există lucruri mult mai îngrozitoare decît moartea BR Anna Ahmatova

În viaţă există lucruri mult mai îngrozitoare decît moartea
Anna Ahmatova
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Arhiva April, 2013

Vasile Ernu / satisfiction.me

di Veruska Armonioso / www.satisfiction.me / 24-04-2013

vvVasile Ernu, classe 1971. Dalle foto appare simpatico, riservato, eccentrico ma con garbo, un garbo russo, oserei dire sovietico. Infatti sì, è proprio così, lui è proprio sovietico. Poi sì, è anche vero che nel 1991 torna in Romania, terra natìa dei suoi genitori; che lì prende una laurea e un master in filosofia e comincia a collaborare con prestigiose riviste e case editrici di settore, fino ad arrivare a fondare insieme ad altri amici l’influente gruppo di critica sociale, intellettuale e politica CriticAtac, ma di base è nato in Urss, non si discute. Non si discute al punto tale da intitolare il suo esordio letterario proprio in questo modo. Nato in Urss esce nel 2006 e subito ottiene premi, tra cui il “Book Pitch” alla London Book Fair. Io l’ho conosciuto nel 2010, quando la casa editrice Hacca lo pubblicò nella sua versione italiana per grazia della traduttrice Anita Natascia Bernacchia. Su Vasile Ernu va detto poco perché va letto. Io lo leggo spesso, tipo vademecum. Me lo leggo ovunque, bagno incluso, perché nonostante lo spessore culturale e intellettuale di questo signore, i suoi libri sono per tutti, per tutti i luoghi, per tutti i tempi. Ci sarebbe da ridire sul suo modo di scrivere, i critici dabbene direbbero che non appartiene a “scuole”, ma ho la netta convinzione che al Vasile scrittore e uomo poco importi della borghesia intellettuale. Del resto, lui è nato in Urss e lì non si scherza niente.

Nel 2012 esce, sempre per Hacca, la traduzione del romanzo Gli ultimi eretici dell’Impero, un gioiellino da maneggiare con cura. Un romanzo epistolare, proprio a volergli appiccicare addosso un’etichetta. A me piace pensarlo, invece, come una raccolta, sì, di lettere tra due tizi che poi capirete in che relazione si trovano, ma principalmente come una raccolta di pensieri belli che Ernu ci regala con un registro tanto brillante da farci dimenticare che di tragico si parla. Proprio come in Nato in Urss, anche in Gli ultimi eretici dell’Impero si sorride, a tratti si ride, e si va tanto di lapis. Ma ora, senza troppo indugiare in inutili parole accessorie, lascio a voi le sue parole.

Nato in URSS

Ho lasciato questo Paese nel 1990. Volendo parafrasare Vladimir Majakovskij, potrei dire: leggete, invidiatemi, anch’io sono un cittadino dell’Unione Sovietica. L’URSS è il mio Paese, la patria nella quale sono nato e vissuto. È un Paese che non può lasciarti indifferente, qualsiasi rapporto tu abbia avuto con lui, che tu lo ami o lo odi. Spero che quanto segue non vi sembri né amore né odio, ammesso che siano due cose diverse. Indifferenza non sarà di certo.

L’Unione Sovietica non è stata solo un Paese, è stata molto di più, è stata il più grande progetto politico utopico della modernità. Un Paese in grado di meravigliarti, di affascinarti, con un fascino che lascia tracce e ferite profonde. Come direbbe la prima intellighenzia rivoluzionaria degli anni successivi al 1918, in URSS non era l’arte a imitare la vita: era la vita che doveva farsi arte. Lì abbiamo interpretato tutti la più grandiosa partitura politica del XX secolo, scandita da slanci eroici, sforzi disumani, tragedie sconvolgenti, vittorie e sconfitte sanguinose. Lì abbiamo interpretato una partitura in cui eravamo tutti contemporanei. I nostri eroi, le grandi personalità e i personaggi, le parole e gli oggetti, a prescindere dall’epoca reale in cui erano nati e vissuti, abitavano accanto a noi, nella stessa komunalka denominata URSS, divenendo nostri precursori e nostri contemporanei a un tempo.

Sono stato testimone di uno dei progetti più utopici dell’umanità, sono stato testimone di un progetto incompiuto, ne ho visto la gloria e il declino. È di questa utopia che voglio raccontarvi. Tutto quello che ho scritto è narrato alla luce di una doppia esperienza, che non è necessariamente inedita. Si tratta, da un lato, dell’esperienza diretta di un cittadino vissuto nello spazio sovietico, dall’altra di un’esperienza colta, culturalmente mediata. Entrambe hanno contribuito a rendermi un prodotto made in URSS. Per me è quasi impossibile distinguerle l’una dall’altra. Allo stesso tempo, il mio racconto riflette il punto di vista di un homo sovieticus, un prodotto di questa terra e di questa cultura. E mi sono proposto di non attingere direttamente all’armamentario intellettuale che ho acquisito in seguito.

Quel che cerco di fare è una sorta di archeologia della vita quotidiana in URSS, intesa come metafora della cultura e della civiltà sovietica. Il testo che segue, scritto alla maniera di un “genere eretico”, tenta di condensare temi, eroi, situazioni, ricordi, oggetti e parole-chiave in un puzzle composito. Anche se ogni frammento-testo del puzzle può essere letto singolarmente, l’intero è comprensibile solo assemblando i pezzi tra loro. Questo insieme non ha la pretesa di costruire un’immagine esaustiva, oggettiva ed esatta di quel che è stata la cultura sovietica. È un’archeologia soggettiva, personale, che intende suggerire tracce, stati d’animo, modi di pensare e di parlare tipici di una cultura, infine schizzare un quadro della mentalità culturale sovietica. Non propone una chiave di lettura, un giudizio morale o di valore, ma invita a una familiarizzazione che ci può aiutare a capire meglio cosa è stata l’Unione Sovietica e cosa significa la sua mancanza.

Naturalmente, il rischio di parlare della vita quotidiana di un’epoca trascorsa comporta, senza volerlo, una certa dose di nostalgia. In primo luogo, però, come concetto, la nostalgia è in diretta contraddizione con l’homo sovieticus, per il semplice motivo che è un’utopia rivolta al passato, mentre lui crea utopie rivolte al futuro. In secondo luogo, la nostalgia, come forma di ritorno a casa, è impossibile, poiché per noi homucus non esiste più un a casa. E, se pure esiste una nostalgia, essa non mira a ricostruire il passato, bensì a raccontarlo, a rimemorarlo. E poiché, in teoria, la nostalgia si distacca molto dall’ironia, visto che entrambe agiscono nella doppia contemplazione dell’oggetto e del soggetto, io le mescolo e rivivo il passato con uno sguardo nostalgico-ironico.

Guardando indietro, mi rendo conto che, una volta scomparsa l’Unione Sovietica e il comunismo, qualcosa è andato perduto. Non saprei dirvi che cosa. Forse si è perso un certo pathos, un certo modo di vedere le cose e di vivere la vita di tutti i giorni, o forse l’entusiasmo e la voglia di credere ancora negli ideali, o, ancora, una certa maniera di soffrire. Non sono in grado di identificare con precisione la perdita, ma ne vivo tutta la tristezza. Ritengo, con buona convinzione, che sia stato perso qualcosa di essenziale e significativo nella nostra esperienza umana. Ma questa perdita non può essere né sostituita, né riabilitata. Con un po’ di buona volontà, ritengo che una perdita del genere possa essere solo compresa.

Ogni tanto mi capita ancora di voler comprare un biglietto per andare in URSS, ma ogni volta devo ricordarmi che un oggetto del genere non si trova più in vendita. Non ci sono più treni, né aerei, né strade che portano in URSS, per il semplice fatto che l’Unione Sovietica non esiste più. L’unico mezzo per visitare il mio Paese è la memoria. Il testo che segue è il racconto di questo ricordo, di questa avventura incredibile.

Gli ultimi eretici dell’Impero

Importante, qui, è il rapporto tra lo stato e i suoi cittadini. Dal modo in cui è costruito lo stato deriva anche il rapporto che intrattiene con loro. Nel comunismo, tutto era concepito secondo decreti, postulati e direttive. Nel mondo capitalista, la lingua si svigorisce, di certo non scompare, ma acquista un altro significato, un’altra funzione. Si fa strumento finanziario, economico, assume una funzione economica. Poiché non comunica con i suoi cittadini attraverso le parole, bensì attraverso il denaro, il regime capitalista è essenzialmente sordo e muto. Le fatture, le carte di credito, i prestiti, le assicurazioni e soprattutto le imposte rappresentano le forme in cui uno Stato del genere interagisce con i suoi cittadini. La lingua è superflua, ha un carattere puramente estetico, funzionale e commerciale, nulla di più.

Da qui il diverso ruolo svolto dagli intellettuali dei due sistemi. Nel sistema comunista hanno una funzione essenziale, dato che sono l’unico gruppo a detenere un’autorità in materia di fondazione della lingua, strumento del potere statale. Erano quelli che producevano i testi così necessari al regime, ovvero la narrazione del potere mediante la quale lo stato si imponeva. Nel comunismo, l’intellettuale legittimava o delegittimava il Potere, l’Autorità. Nel sistema capitalista, costui assume una valenza puramente tecnica, divenendo più che altro un membro qualsiasi della società del commercio, in cui tutto è in vendita. Qui la lingua non assume più una valenza politica, ma soltanto commerciale. Tra il banchiere della Banca X, il concessionario di automobili Y e l’intellettuale dell’Università Z non c’è più differenza, poiché tutti vendono, in realtà, un determinato bene: denaro, automobili o testi, conoscenze. La lingua e i testi diventano una merce con pari diritti, soggetta alle norme di mercato. Il credito, lo status e il potere di cui l’intellettuale godeva negli anni del comunismo perdono contorno, e nella nuova società capitalista a quest’ultimo non resta altro che sedersi buono buono al bancone, accanto agli altri membri della società, per far negozio.

Lo ammetto, nutro una certa simpatia e ho un debole per chi ha il coraggio di rompere i confini di certi cliché, di sviluppare le idee spingendole il più lontano possibile. Mi piacciono le persone dalle “idee rischiose”. I conservatori mi annoiano a morte. Raccontano all’infinito le solite storie, sono come dei dischi rotti che ripetono meccanicamente le stesse cose, e penso che non potranno mai inventare nulla di nuovo. Il conservatorismo è come un cadavere: possiede un equilibrio perfetto. L’avanguardia è un fenomeno che adoro, sia in arte che in politica. In politica, tuttavia, sarebbe auspicabile fare più attenzione, specie dopo l’esperienza del XX secolo: nessuna idea deve diventare causa di sacrifici umani. Odio la violenza, benché l’avanguardia presenti nei suoi atteggiamenti un che di violento, vale a dire un grande coraggio nel voler spezzare ogni legame con un mondo che considera morto e sepolto. In tutto questo meccanismo c’è qualcosa di fragile.

Una mente sobria non è la qualità principale di coloro che prendono in prestito, ma di coloro che danno in prestito. (…) Nel “Times” ho letto con stupore che un giornalista proponeva, quale strumento di lotta alla nostra eterna “transizione” e alle sofferenze di tale eterno “stordimento”, di bere sei bottiglie di Coca Cola. Lo ammetto, ho visto rimedi e varianti anche poco umani, o forse troppo umani, per contrastare questa condizione “politica”. Ma a soluzioni del genere ho reagito in maniera radicale: mi spiace ma sono persuaso che l’organismo torturato del cittadino che abbia vissuto l’“alcolismo”del comunismo e viva oggi lo “stordimento” capitalista della transizione non possa sopportare un livello tanto elevato di ideologia in corpo. Un’overdose di ideologia può ucciderti. Tutto sommato nella vita ci sono cose che non si possono mischiare.

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27 April, 2013
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Született Szovjetunióban / 3 cronici noi în Ungaria

A forradalom érdekében /Demény Péter| Népszabadság|

729A Született Szovjetunióban úgy összefüggő történetek könyve, ahogy a Szovjetunió összefüggő köztársaságokból álló ország volt egykor. Nem lekezelő állítás ez a részemről, mintha a történelem egyik ostoba tréfájához hasonlítanám a kötetet, hiszen Vasile Ernu opusából éppen az derül ki, nem is volt olyan rossz az a Szovjetunió, valósággal kár, hogy megszűnt.

S ez abból a nosztalgiából derül ki, mely aranyfonálként húzódik végig a művön – a szerző kerek perec megmondja: „Ha visszanézek, be kell látnom: a Szovjetunió, a kommunizmus eltűnésével valami elveszett. Nem tudnám pontosan megmondani, mi az. Talán valamiféle pátosz, a dolgokhoz, a mindennapi élethez való egyfajta viszonyulás, az eszmék iránti lelkesedés képessége, talán a szenvedés egy bizonyos fajtája. (…) Nem kis meggyőződéssel hiszem, hogy az egyetemes emberi élettapasztalat egy lényeges, jelentős része veszett el.”

Ezt az élettapasztalatot próbálja összefoglalni, újrateremteni a könyv ötvenegy fejezetben, amelyek valójában esszék. Van, amelyik fölött ajánlás vagy mottó áll („Leninre a kő is emlékezik” – ez a Majakovszkij-sor az Uljanov, Lenin vagy egyszerűen csak Iljics fölött; „És már ittam is” – ez a Venyegyikt Jerofejev-állítás a Mit iszik a szovjet polgár? II. része előtt; „Az Ekaterina Degotyval folytatott beszélgetés nyomán” – ez vezeti fel A tárgyak nagy szovjet kalandját; „Ilja Kabakovnak ajánlom” – írja a szerző az Óda a szovjet tualethez ajánlásaként).

Van, amelyik „csak úgy” kerül elénk, mindenféle előzetes nélkül. Ezek az ajánlások és mottók, valamint a kétrészes epizódok (Kommunalka I–II., Szex a Szovjetunióban I–II., Mit iszik a szovjet polgár? I–II.) is arról tanúskodnak, Ernu részletekben írta meg a művét, az azonban, hogy ezek az első és második részek nem egymást követik, arról, hogy eleve egészként képzelte el. Aki ura az anyagának, csak az tud ilyen nagyvonalúan és magabiztosan szerkeszteni, annak sikerül éppen azt a helyet megtalálnia, amely minden szempontból a legmegfelelőbb.

Egy olyan könyvben, amely a Szovjetunióról szól, mi sem természetesebb, mint hogy az után a fejezet után, amely a Szex a Szovjetunióban I. címet viseli, s amelyből kiderül az, amit a keleti blokk minden felnőttebb polgára sejt, hogy ott is szabály volt: „A Forradalom érdekében a munkásosztálynak jogában áll tagjai nemi életébe avatkozni”, ez után tehát a Fanny Kaplan következik, Fanny, aki rálőtt Leninre, „mert Lenin elárulta a forradalom eszméit”.

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Halotti lepel? | Vasile Ernu: Született Szovjetunióban / olvassbele.com / Kibédi Varga Sándor

A könyv, amiről ön most olvas: könnyes emlékezés és szerelmetes vallomás a nagy Szovjetunióról. Vagy majdhogynem. És még: egy államutópia dagerrotípiája, valamiféle halotti lepel, mini szociográfia, érzelmes utazás az egyszemélyes történelemben.

Az utószót jegyző Tamás Gáspár Miklós megállapítja, hogy a szöveg nem szovjetellenes, nem antikommunista. Ez persze nem baj, ám fennáll annak veszélye, hogy nosztalgikussá válhat. Bizony a szerzőnek „késélen” kell járnia, írja TGM. Nekem csak a „késéllel” van gondom. Szerintem Vasile Ernu inkább egy közönséges betonút közepén imbolyog, pontosan a jobb- és a baloldali kocsisort elválasztó folytonos sávon. Kitárt karral, félig csukott szemmel megy, mint egy gyermek, közben azt képzeli, hogy drótkötélen egyensúlyoz. Így persze gyakran lelép a felfestett vonalról, néha balra, néha jobbra szédül, az úttestről is letérve a sűrű erdőben botorkál. A könyv stílusa ironikus, szatirikus – olvasom ugyancsak az utószóban. A minősítés tökéletes, ám ha az irónia és a szerelem tárgya ugyanaz, a helyzet zavarossá válhat.

Vasile Ernu 1971-ben született, és a fülszövegből kiderül, hogy csak a gyermek- és ifjúkorát töltötte a Szovjetunióban. Így érthető, miért az iskola uralja a textust. Tanárairól viszont nem beszél, diáktársairól is nagyon keveset, ám megered a szava, ha a pionír (úttörő) életről van szó. Megtudjuk, hogy a szovjet pionír bibliája Arkagyij Gajdarnak a Timur és csapata című könyve, és hogy milyen nagyszerű dolog idős asszony kertjét felásni, tűzifát halomba rakni, hulladékpapírt, ócskavasat, kamillavirágot gyűjteni, nyári táborban ücsörögni. Ez az életérzés mindig összefüggésben van Vlagyimir Iljiccsel: nevét annyiszor emlegeti elismerően, hogy – néha nem is tudom, miért – sokkol vele.

Előkerülnek a szovjet jellemet formáló hősök: Lenin után Zinovjev, Buharin, Trockij, majd a sor folytatódik Stirlitz-cel, a nagy kémmel, Jurij Gagarinnal, a nagy űrhajóssal. Osztap Bender sem marad ki, aki ugyan Ilf és Petrof regényhőse, és persze antihős. És ha irodalom, akkor Jeszenyin és Bulgakov. A számomra ismeretlen példaképek közül megjegyeztem magamnak Pavlik Morozovot, aki feladja saját apját, mert az eldug egy szekérnyi búzát a hatóság elől. „Mennyire fájt, amikor megtudtam, hogyan álltak rajta bosszút a kulákok! Felnéztem rá.” Most mi van? Jó, elhiszem, ironizál a szerző. (Vagy mégsem?) Na, de egy lapon emlegetni Bulgakovot, Osztap Bendert, Morozovot, enyhén szólva túlzás. Valóságos tanulmányt ír a kedvenc meséiről és filmjeiről, a szereplők közül kiemelkedik a Burattinó nevű figura, akit az olasz Pinocchióról koppintottak, és Otto von Stirlitz – A tavasz 17 pillanata című filmsorozatból –, aki viszont valóságosnak hitt személy. (Valójában kitalált figura, ám nem teljesen a képzelet szülötte. Mintája, egy bizonyos Willi Lehman létezett.)

Az átlagos szovjet ifjúnak kiválni csak az előírt módon lehet. Ha más utat választ, retorzióra számíthat, mondjuk a kozmopolitizmus elleni harc jegyében. Aki túlzottan színes ruhát, hosszú, loboncos hajat, trapéznadrágot visel, ráadásul gitárt penget, az huligán. Megtudjuk, ezeket a fiatalokat nem érdekli a politika, és a hatalomnak ez fáj igazán. „Még a kibírhatatlan Szolzsenyicinnel, a szőrszálhasogató Szaharovval szemben is tudtak elnézőek lenni, mert a hatalom megértette a gyűlölet különböző formáit, ám a közönnyel nem tudott mit kezdeni.” Ez a mondat minden ízében recseg-ropog. Hogyan lehet a kibírhatatlan jelzőt aggatni arra, aki tizenegy évig börtönben, munkatáborban él, megírja gulág-élményeit, Nobel-díjat kap, ám elkergetik hazájából? Hogyan lehet szőrszálhasogatónak nevezni a magfizikust, aki harminckét évesen akadémikus, de a jelentős a polgárjogi tevékenysége miatt száműzik, igaz, Nobel-békedíjat is kap? Irónia? Ez nem az. Visszatérve a huligán-félékre: később, a nagy átalakulások idején megjelennek a szovjet rockerek, akik már bátor szövegeket írnak. A hosszú idézetek közül álljon itt egy rövid: „Ott egy traktor robog, a malacoknak annyi, / A szomszéd faluban, mondják, piát lehet nyakalni.” Irónia? Ez már igen.

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A közös klotyók diszkrét bája / litera.hu /Vass Norbert

Tekintsük a Szovjetuniót egy hosszúra nyúlt, könnyfakasztó kísérletnek. Tételezzük róla, hogy a modern kor lenyűgözőnek szánt, füstbement utópiája. Mi, akik tetemén taposunk, ugyanakkor együtt cipeljük a koporsóját is, próbáljuk meg átélni a születése idején felbuzgó forradalmi hevületet. Váltsuk meg párkopejkás zsetonunkat és szálljunk be az Vasile Ernu vezérelte, virtuális szovjet-szimulátorba, kössük be az öveket, és ha elindult a menet, kacagjunk kedvünkre, de azért szisszenjünk is fel, kacsintsunk vissza a felderengő árnyképekre, ismerjük meg jól a pályát, csak a végén el ne feledjük kitörölni szemünkből a könnyet.

Ernu azt állítja, hogy a Szovjetunió megszűnésével valami véglegesen elveszett. A nemlétező, kényszerű honba pedig kizárólag az emlékezet vezetheti haza a hobbi-csellengőt. A Született Szovjetunióban című könyv afféle sztalker-vállalkozás ezért. A benn csücsülő, onnan ki se látó homo sovieticus nézőpontjából ismerteti meg a „Zónát” az iránta érdeklődővel. Erkölcsi- és értékítéletek nélkül, közelképekkel, a vetítőgép nosztalgikusan-ironikusan remegő fényénél. Nyúlfarknyi groteszkekben idéződik fel a kisdobosból úttörővé avanzsálók beavatási misztériuma, ennek kapcsán a kísérőnk kitér a nyakkendő-kötés fazonlehetőségeire, felidézi a kemény parancsszavak mögé bújó pionírlányok kivillanó bokájának buja erotikumát, továbbá a húszfős lakóközösségek által közösen használt toalettek szokásjogát. Aki ismeri netán Pozsonyi Ádám A Lenin-szobor helyén bombatölcsér tátong című, kis
példányszámban nyomott, kultikussá lett, honi punktörténeti életképeit, az hozzávetőleg el tudja helyezni műfajilag Ernu szovjetlélek-rajzait is. A méretarány más csupán. Pozsonyi a szűk punk-csoportról, míg Ernu egy jóval nagyobb átmérőjű és időben is hosszabban létező markáns szubkultúráról, a Szovjetunióról mesél.

A szerző rövid szösszeneteiben ügyesen vegyíti a személyes emlék-képeket a szovjet néplélek héroszairól szóló mítoszokkal és regékkel. Elmondja saját elsőfarmer-történet, visszaemlékszik a táborokban masírozó mókusőrsök harsány dalaira és a közösségteremtő bolt előtti sorban állásokra. Felidézi az Urálon túli gyerekmesék Pinocchioját, akit történetesen Burettinonak neveznek, érzékelteti az államához és asszonyához hű titkosszolgának, Stirlitznek mélyen a szovjet kultúrába ágyazott karakterét és Majakovszkijjal méltatja Lenint mint “fényképet szobája falán”. A látszólag keresetlen, valójában nagyon is átgondoltan válogatott, jellegzetes és jellemző életképeiből pedig afféle regionális kedélyállapot-panoráma kerekedik. A szovjet mindennapok tárgyi és gondolati múzeuma áll össze, egy érzelmekkel alaposan átitatott dizájncenterré. „A Szovjetunióban soha nem sikerült megértenem, hol végződik a mese és hol kezdődik a valóság.” – jelenti ki a szerző.

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8 April, 2013
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Vasile, l’eretico

 di Piero Ferrante / Stato quotidiano.it

ernu_ereticIn copertina, sfondo rosso e onda bianca in stile Coca Cola. Appena sopra di questa, invece del marchio registrato della più consumata bevanda gassata del mondo, un più immediato “Communism”. Brand d’altri tempi, verrebbe da dire. In fondo, si è dissidenti anche così, quando ci si oppone ad un impero nuovo di zecca (che poi tanto nuovo manco lo è) brandendo simboli e valori uno più antico. O rivendicandone i difetti, appropriandosi degli errori. Dissidenti, dunque. O forse eretici. L’equivalente politico di ‘spine nel fianco’. Eretici come Vasilij Andreevic o come A.I., i protagonisti de “Gli ultimi eretici dell’impero”, opera ultima dello scrittore rumeno Vasile Ernu edita in Italia a fine 2012 da Hacca (per Macondo, recensione di “Nato in Urss”).

“Gli ultimi eretici dell’impero” è una piccola enciclopedia in forma epistolare (a dialogare sono, appunto, Andreevic e A.I.) dei giorni della Romania comunista. Un dizionario di cose andate, un compendio in cui prendono forma, sostanza e vita personaggi, racconti e valori. Idee e immagini vivide che Andreevic e A.I. pescano da un mondo finito sommerso sotto le macerie della Storia, resistito alle più funeste delle guerre dell’umanità, e terminato a Berlino nel 1991, prono sotto il fardello di uno zaino pieno d’armi e di (troppa) burocrazia.

Nelle loro parole, nei loro punti di vista talora contrastanti, talora coincidenti eppure sempre complementari, descritti con minuzia e, insieme, con ironia, Ernu situa una riflessione inedita e scevra di condizionamenti sull’Unione Sovietica e, soprattutto, tutta la disillusione verso un sistema, quello capitalista, che avrebbe dovuto far dimenticare le brutture del comunismo e che, viceversa, non fa, di giorno in giorno, che riabilitarlo. E allora i due parlano del senso perduto della Patria, del ruolo mutato dell’intellighenzia, dello svilimento del linguaggio, di armi, letteratura e di servizi segreti, di Gulag e religione, di banche, di Dracula, del Partito, di Lenin e di vodka, regalando un grandangolo sul mondo al di là della cortina. E parlando, si scoprono forti di un passato che li ha visti parte, per quanto del tutto marginale e finanche critica, di un sistema. Una critica che, purtuttavia, aveva un senso, un indirizzo e un ricettore finale. Una critica che andava a bersaglio e che colpiva, nel tempo in cui le parole avevano un senso e la debolezza di un sistema non variava con il variare della valuta.

Questo libro, comunque, è ben più d’un nostalgico rimpianto dei tempi andati, è più d’un latrato solitario alla luna. Ernu compone piuttosto un manifesto romanzato, affidato alle parole di due voci scomode, due figli dell’Impero sovietico. Figli indisciplinati e ribelli, ostili rispetto alle forme di controllo ma, nel contempo, malinconicamente orfani di un modello rigoroso e irripetibile.

Vasile Ernu, “Gli ultimi eretici dell’Impero”, Hacca 2012
Giudizio: 3 / 5 – e un altro giorno è andato

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7 April, 2013
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